MEMORIE – COME ERAVAMO
LIA ALBONICO
La caserma di Como era sorta in una vecchia struttura ospedaliera ed i malati avevano lasciato il posto ai mezzi antincendio. I vigili del fuoco facevano il turno in cucina; l’unico fisso era il buon Peppone estremamente abbondante di stazza e buon umore.
I pasti si consumavano in una mensa arredata con lunghi tavoli e panche di legno, ambiente “polifunzionale” che, con l’avvento della televisione, serviva anche da sala ritrovo per i familiari. Mia madre lavorava, così, quando non stavo a scuola, condividevo con mio padre la vita di caserma.
Al mattino chi “montava” era allineato in rimessa per l’appello, poi ognuno si dedicava ai compiti assegnati. Per le riparazioni, gli strumenti erano rudimentali ed alcuni sono visibili nel museo dei vigili del fuoco di Roma. Gli abiti e le strutture non offrivano certo la sicurezza di quelli odierni, ma lo spirito era lo stesso.
Molto spesso nel piazzale sul retro della caserma si svolgevano le esercitazioni e nelle dimostrazioni di salvataggio le presunte vittime erano i figli dei vigili del fuoco. Fra le braccia di mio padre io mi sono sempre sentita sicura, del resto come non avrei potuto visto la sua possente struttura; esercitava molti sport, come canottaggio, calcio e, per la squadra dei pompieri, partecipava ai campionati di lotta greco-romana.
Svolgeva con modestia e semplicità i compiti che gli erano assegnati, ma la forte carica di umanità affiorava nei resoconti che faceva a mia madre. Parlava della difficoltà di comunicare ai familiari le notizie delle tragedie. Erano molti i casi di annegamento. La guerra aveva lasciato postumi traumatici e non pochi terminavano la loro vita lungo la ferrovia, sotto i treni in transito. Non erano molti fra i vigili del fuoco a sopportare la vista di corpi martoriati, ma papà era sempre in prima linea nel recupero delle vittime. I turni, 24 ore in caserma ed altrettanti di riposo, richiedevano anche una disponibilità costante. I telefoni ed i citofoni non erano ancora molto popolari, (cose da ricchi!), perciò sul portone di casa mia era stato istallato un campanello collegato con l’abitazione e quando c’era un’emergenza, un collega veniva a suonare anche nel cuore della notte. A scuola, le figlie dei vigili del fuoco si distinguevano per un curioso particolare: le cartelle, confezionate dai nostri padri con gli scarti dei tubi in canapa, vere opere d’arte e pazienza. Non girava molto denaro perciò era naturale arrangiarsi: verso Natale molti giocattoli erano costruiti con quanto era disponibile. Io ricordo un carro armato per mio fratello maggiore con il cannone ricavato da un manico di scopa.
Ero ancora piccola, quando in un incendio di bosco papà, munito di ramponi, scivolò su di un masso coperto dalle foglie. Non sembrava così grave, anche se dovette essere portato a casa con l’aiuto dei colleghi. Era l’anno in cui la disastrosa alluvione del Polesine richiese l’impegno di tutti e papà partì con gli altri incurante di quanto gli era successo.
Io non me ne rendevo conto, ma per mamma furono giornate dure da passare, sempre con l’orecchio alla radio per seguire l’evolversi della situazione. Finalmente dopo molti giorni fu il momento del ritorno. Papà alla partenza pesava più di un quintale, ma al suo ritorno era l’ombra di se stesso, irriconoscibile.
Poi col tempo e la trascuratezza, i postumi della caduta sull’incendio si aggravarono; fu operato al Rizzoli di Bologna e purtroppo la deambulazione non gli consentì più di svolgere i suoi compiti, ma aveva continuato a frequentare la caserma e con orgoglio ripeteva: “Io sono vigile del fuoco finché vivrò”. Furono proprio i suoi colleghi ad accompagnarlo nell’ultimo viaggio.
foto di proprietà di Lia Albonico