L’esposizione ai Pfas dei Vigili del fuoco
Le sostanze perfluoralchiliche tossiche per l’uomo sono presenti sia nelle tute che nelle schiume anti-incendio, ma il ministero dell’Interno non avvia le indagini necessarie per la sicurezza dei pompieri (CONTINUA A LEGGERE)
Un paio di stivali, calzettoni spessi, pantaloni e una polo grigia, una giacca. E poi sopra un altro pantalone e un giaccone anti-fiamma. E ancora l’elmo e i guanti. La divisa di un vigile del fuoco che si appresta a intervenire è una composizione di diversi strati pensati per difendere la pelle dal fuoco, dalle sostanze tossiche, dai fumi. Diversi strati per isolare e proteggere, che lasciano esposto solo il viso, che viene coperto da maschere filtranti solo se l’intervento lo richiede. Ogni pompiere sa di essere protetto solo se indossa tutti questi dispositivi di protezione individuale (Dpi).
Per essere efficaci e svolgere il loro ruolo protettivo, i completi anti-fiamma devono essere costruiti con materiali resistenti al fuoco, e quelli in dotazione al Corpo nazionale dei vigili del fuoco (C.N.VV.F) contengono il Politetrafluoroetilene (Ptfe), più conosciuto come Teflon, e altri Pfas, le sostanze perfluoralchiliche note soprattutto per essere responsabili di una delle più grandi contaminazioni ambientali italiane, avvenuta in provincia di Vicenza a opera dell’azienda Miteni.
Molti malati, poche indagini
«Nei primi dieci anni in servizio ho visto molte persone a me vicine che si sono ammalate». Sergio (nome di fantasia per proteggere la sua identità in quanto già vittima di attacchi legali), pompiere con 30 anni di esperienza sul campo, ha la voce ferma quando ci racconta la sua esperienza e quella dei suoi colleghi con la malattia. Per molti il tumore è arrivato intorno ai cinquant’anni, quando erano già in pensione. Negli ultimi due anni almeno cinque persone del suo comando sono state colpite da diversi problemi di natura oncologica: chi alla prostata, chi allo stomaco o al pancreas e poi altri due, come lui, con il linfoma non Hodgink. Il più giovane tra loro ha 46 anni.
Durante le sedute di chemioterapia, tre da cinque ore ogni 23 giorni, Sergio ha iniziato a chiedersi se avesse sbagliato qualcosa nel suo lavoro, se avesse seguito sempre tutte le norme di sicurezza o se, in qualche modo, si fosse esposto accidentalmente a qualche pericolo.
A luglio dello scorso anno, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) ha infatti riclassificato la lotta antincendio dei vigili del fuoco, come occupazione ad alto rischio per il cancro. Una ricerca dell’University of Central Lancashire del 2020 aveva rivelato che il 4,1% dei vigili intervistati, ancora in servizio, avevano ricevuto una diagnosi di cancro rispetto all’1% della popolazione generale. Il cancro più comune era quello della pelle (26%), seguito da quello ai testicoli (10%), quello alla testa e al collo (4%) e dal linfoma non Hodgkin (3%). A causare tumori, secondo questa ricerca e anche secondo la Iarc, sarebbero le sostanze chimiche tossiche irritanti e cancerogene emesse durante un incendio sotto forma di polveri, fumo, vapori e fibre, prima fra tutte l’amianto.